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  • 07/10/2025 22:16

Il narcisismo è il carburante del potere assoluto.

Studiare la mente dei dittatori significa osservare come il potere, quando non trova limiti, finisce per riscrivere la personalità di chi lo detiene. Ogni figura autoritaria nasce da un contesto storico, ma i meccanismi psicologici che la sorreggono tendono a ripetersi. Adolf Hitler si sentiva “prescelto dalla storia”. Benito Mussolini si vedeva come rifondatore di Roma. Joseph Stalin costruì un culto di sé che rasentava la divinizzazione. Nel presente, Kim Jong-un incarna un culto ereditario: viene presentato come genio militare, padre amorevole e figura quasi mistica. Ogni gesto, ogni fotografia è calibrata per rafforzare la mitologia del “leader perfetto”. Dietro la grandiosità si intravede un bisogno patologico di conferma: l’ego deve essere continuamente alimentato da simboli e rituali di devozione. Stalin eliminò collaboratori e amici; Saddam Hussein faceva torturare ministri accusati di “tradimento”; Kim Jong-un ha fatto giustiziare persino familiari, come lo zio Jang Song-thaek, per mantenere la paura come strumento di coesione. La paranoia diventa la lente attraverso cui viene letta ogni relazione: chi non adora è una minaccia, chi critica è un nemico. Il dittatore non mente solo agli altri, ma anche a sé stesso. Hitler credeva sinceramente nella propria missione; Gheddafi riscriveva la storia della Libia per giustificare ogni atto; Kim Jong-un vive in una realtà parallela in cui il Paese prospera e il mondo lo teme. Quando la propaganda diventa l’unico linguaggio, la percezione si chiude su se stessa. L’autocrate non distingue più il consenso reale da quello imposto. Il “nemico esterno” è un meccanismo psicologico e politico insieme. Serve a proiettare fuori le proprie paure e a rafforzare il senso d’identità nazionale. Mao Zedong usò l’“imperialismo occidentale” come spauracchio costante; Kim Jong-un alterna gli Stati Uniti e la Corea del Sud come bersagli simbolici. Il nemico è necessario per mantenere lo stato d’emergenza che giustifica ogni eccesso di controllo. Dietro molti autocrati si trovano infanzie instabili: padri violenti, madri distanti, ambienti di privazione o umiliazione. Hitler e Stalin ne sono esempi classici. Kim Jong-un, pur cresciuto nel privilegio, ha vissuto una forma diversa di trauma: un’educazione isolata, modellata su paura, competizione e culto familiare. La sua identità è stata fusa con quella del regime fin dall’infanzia. Mussolini e Hitler non potevano più fermarsi senza crollare; Gheddafi e Ceausescu hanno negato la fine fino all’ultimo minuto. Kim Jong-un mostra la stessa dinamica di dipendenza: ogni dimostrazione di forza, ogni parata o missile lanciato serve a nutrire l’immagine di invincibilità, come una dose necessaria per tenere in vita la propria leggenda. Chiunque non si piega viene eliminato, e col tempo nessuno osa più dire la verità. Il dittatore finisce per vivere in una bolla di sudditi e paura. Hitler nel bunker, Stalin solo tra spie, Gheddafi circondato da cortigiani armati, Kim Jong-un chiuso in un sistema che lo venera ma lo imprigiona. L’onnipotenza diventa solitudine. Dietro la ferocia e la propaganda, il dittatore resta un essere umano deformato dal potere e dalla paura. Non serve chiamarlo “pazzo”: basta osservare come il bisogno di dominio, se lasciato senza argini, distrugge prima l’anima di chi lo esercita e poi quella di chi lo subisce.

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