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  • 19/10/2022 18:24

Rischio aggressioni, infermieri in fuga dalla professione

Non solo iscrizioni in calo, ma abbandoni e di frequente l’azzardo di doversi difendere da aggressioni verbali e fisiche. Dal nord al sud Italia non si interrompono gli episodi di violenza nei confronti dei sanitari, infermieri in primis. Spiega il Nursind di Macerata: Criticità molto sentita tra gli operatori, con forte rimando al personale del Pronto soccorso, in prima linea a contatto con l’utenza. Tra i casi più recenti due in Emilia Romagna e uno in Umbria. Casi di violenza ai danni dei sanitari in aumento Sanitari aggrediti: gli Ordini insorgono. Siamo inascoltati non da mesi, ma da anni In proiezione del nuovo Ccnl comparto Sanità e delle proposte di legge come lavori usuranti e libera professione, un tema altrettanto caldo – e grave, per le conseguenze che comporta – riguarda le aggressioni contro i sanitari. Così, mentre i sindacati parlano (a ragione) di problematica particolarmente avvertita da tutti gli operatori, e di rischio fuga dalla professione anche per questa ragione, tendono a non diminuire (tutt’altro) i casi di violenza contro gli operatori sanitari. Basti pensare al parapiglia di poche ore fa all’ospedale Ramazzini di Carpi (Modena), con una trentina di persone – parenti di due feriti arrivati al Pronto soccorso dopo un incidente – che sono entrati nei locali e hanno iniziato a minacciare e insultare il personale sanitario. Invitati alla calma, i facinorosi sono divenuti ancora più aggressivi, rendendo anche più complesso il lavoro di infermieri, operatori socio sanitari e medici. Per fortuna (se così si può dire) l’aggressione non ha valicato il confine verbale. Ad ogni modo l’Ausl ha subito avviato un procedimento per la segnalazione dell’intera dinamica dell’accaduto alle forze dell’ordine. E ancora, domenica scorsa un paziente di 45 anni ricoverato all’ospedale Bufalini di Cesena ha minacciato con un coltello gli infermieri e rovinato la sua stanza. Il motivo? Era stato redarguito perché stava fumando. Per l’uomo è scattata la denuncia per minacce e danneggiamento. Sanitari aggrediti: gli Ordini insorgono. Siamo inascoltati non da mesi, ma da anni. All’inizio di ottobre l’Opi e l’Omceo Roma, per voce dei presidenti Maurizio Zega e Antonio Magi, sono tornati a chiedere con forza e all’unisono che gli ospedali vengano dotati di presidi di pubblica sicurezza. Episodi deprecabili ai danni di infermieri, Oss e medici si sono registrati – e si continua a farlo – anche in Campania, (a Napoli, nel 2021si sono registrate oltre 60 aggressioni a sanitari), Liguria e Umbria (presso l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, un 29enne ha spintonato i vigilantes e colpito al volto un infermiere che cercava di calmarlo), ma si potrebbe continuare all’infinito. E alcune Regioni si stanno attrezzando in modo sempre più capillare. È il caso della Lombardia, dove all’interno di numerose strutture – come il Policlinico di Milano e l’ospedale Niguarda, sempre nel capoluogo – ci sono già un presidio fisso di polizia, una sorveglianza con guardie giurate e le telecamere. Ma cominciano anche i corsi di de-escalation per imparare a gestire la comunicazione con pazienti e parenti ed evitare che da problematiche magari solamente causate dalla carenza di informazioni chiare, si attivino conflitti e difficoltà per la sicurezza. https://www.nurse24.it/infermiere/attualita-infermieri/rischio-aggressioni-infermieri-fuga-dalla-professione.html

I commenti

E' soltanto uno dei motivi.
A suo tempo, in altro campo, ho abbandonato l'insegnamento. Motivo?
Ho a disposizione una sola vita.
Appena visto l'andazzo ed osservando che non ci potevo fare niente, poiché comunque ero un 'sottoposto' e chi poteva non ci faceva niente perché diventato manager di 'azienda' con 'clienti',
sono scappato a gambe levate.
Sono almeno cinquant'anni che, nel tempo, la Società italiana ha scientemente, volutamente, programmaticamente, deliberatamente, demolito l'autorevolezza, il credito, la rispettabilità, di tante figure chiave della Società.
Sessant'anni fa certa roba non passava neppure, come si dice, per l'anticamera del cervello.
Siete alla decadenza di una delle tante società evolute che ha conosciuto la Storia, ordinario fenomeno naturale sul Pianeta.
La REALTA' non dice MAI menzogne.
E' solo e soltanto una VOSTRA scelta (non certo mia).
Auguri!

... - 20/10/2022 10:59

Indagine shock della Fnopi: “Un infermiere su tre, quasi 130mila e per il 75% donne, ha subito una violenza da pazienti o accompagnatori”

Gli episodi di violenza verbale o fisica sono avvenuti in diversi settori di lavoro ma la quasi totalità delle aggressioni è avvenuta in ospedale. L’aggressione, nel 53,7% dei casi, si è verificata quando l’infermiere ha provato a comunicare con l’assistito, nel 30,7% nel tentativo di gestire le reazioni dei pazienti come conseguenza dei ritardi e nel 24,7% dei casi durante la somministrazione di farmaci per via orale. Nel 48,2% dei casi l'aggressore è donna. L’indagine è stata svolta da otto univeristà italiane su un campione rappresentativo di 5.472 infermieri di tutte le aree operative della professione. L’INDAGINE.
25 MAG - Degli oltre 11mila casi di violenza sul lavoro denunciati all’INAIL come ‘infortuni sul lavoro’, circa 5.000 sono infermieri. E finora questo è stato il dato allarmante di una situazione ormai ai limiti.
Ma un’indagine svolta su input della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI) da otto università italiane, dice altro, e “scopre” anche i casi non denunciati (perché l’infermiere ha ritenuto che la violenza fosse parte del disagio dell’assistito e dei suoi familiari o perché si è ormai rassegnato a ritenere comunque che questi episodi siano una caratteristica del suo lavoro): il 32,3% degli infermieri (quasi 130mila) dichiara di aver subito un episodio di violenza verbale e/o fisica nell’ultima settimana e/o negli ultimi 12 mesi. La maggior parte di loro lavora in area medica 28,4%), ma anche l’area di emergenza e terapia intensiva non è da meno (27,3%). Sul territorio la percentuale “scende” al 10,9 per cento.

L’indagine si chiama CEASE-IT: violenCE AgainSt nursEs In The workplace: a multicenter, descriptive analytic observational study. E’ stata svolta da otto Università da Nord a Sud Italia, tra dicembre 2020 e aprile 2021 su un campione selezionato e statisticamente rappresentativo di 5.472 infermieri di tutte le aree operative della professione e che ha avuto come promotrice Annamaria Bagnasco, Professore ordinario, Dipartimento di scienze della salute, Università di Genova.

Tutti gli infermieri attivi oggi in Italia sono 395.000 circa su oltre 456.000 iscritti agli ordini e il risultato si traduce quindi in quasi 130mila infermieri (127.585) tra quelli attivi che nell’ultimo anno si sono trovati ad affrontare aggressioni fisiche o verbali e di questi il 75,4% è donna.

Nel 70% dei casi si è trattato di minacce verbali e comportamentali senza contatto fisico, ma nel 30% di minacce verbali e comportamentali con contatto fisico o anche di episodi di violenza con contatto fisico da parte di persone o oggetti.

Più della metà (il 54,3%) ha segnalato l’episodio, ma chi non l’ha fatto si è comportato così perché, nel 67% dei casi ha ritenuto che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio di violenza, nel 20% convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte dell’organizzazione in cui lavora, il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica attesa/accettata del lavoro e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire efficacemente questi episodi, senza doverli riferire.

Ma le conseguenze dell’aggressione ci sono sempre.

Secondo lo studio il 24.8% degli infermieri che ha segnalato di aver subito violenza negli ultimi 12 mesi, riporta un danno fisico o psicologico causato dall’evento stesso, di questi il 96.3% riferisce che il danno era a livello psicologico.

Tra gli infermieri che hanno subìto un danno fisico o psicologico, il 16.6% afferma che il danno era di tipo fisico e ha causato escoriazioni/abrasioni, il 15.3% riferisce invece che il danno subito ha causato ecchimosi.

Poi, il 10.8% dichiara che i danni fisici o psicologici hanno causato disabilità permanenti e modifiche delle responsabilità lavorative o inabilità al lavoro.

Ma la conseguenza professionale prevalente riguarda il “morale ridotto” (41%) e “stress, esaurimento emotivo, burnout” (33%).

Il 15% infine di chi ha subìto un danno dichiara che questo ha comportato un’assenza lavorativa.

Nella maggior parte dei casi (51.8%) l’aggressore è di sesso maschile. La violenza fisica e/o verbale è eseguita in prevalenza dai pazienti nella fascia di età compresa tra 46-55 anni (24.7%) e 36-45 anni (20.8%); non sono riportati episodi di violenza verbale e/o fisica da parte di pazienti di età inferiore ai 16 anni.

E comunque il 59.7% degli infermieri che hanno subito violenza negli ultimi 12 mesi, ritiene che i fattori socioeconomici svolgano un ruolo significativo nel fenomeno delle aggressioni.

L’aggressione è avvenuta nel 53,7% dei casi quando l’infermiere ha provato a comunicare con l’assistito, nel 30,7% nel tentativo di gestire le reazioni dei pazienti come conseguenza dei ritardi e nel 24,7% dei casi durante la somministrazione di farmaci per via orale.

La maggior parte delle aggressioni è avvenuta in ospedale (92,5%, ma le risposte all’indagine potevano essere anche più di una), seguito a distanza dai centri di assistenza per la salute mentale (14,3%), dai servizi ambulatoriali territoriali (10,6%), in caso di emergenza territoriale (118: 3,7%), nelle strutture di riabilitazione e residenziali territoriali (2,8%), durante l’assistenza domiciliare (1,2%) e nei servizi e attività di comunità( ad esempio carceri: 0,4%).

Il 74.4% degli infermieri che ha subito violenza, afferma che l’organizzazione dipartimento/unità operativa ha introdotto immediatamente dopo l’evento di violenza, interventi per evitare una nuova insorgenza.

Il 12.9% dichiara che per l’episodio di violenza più grave subìto è stato offerto l’accesso ad un servizio di supporto per la gestione delle conseguenze fisiche e psicologiche.

I sintomi e/o diagnosi dell’aggressore predittivi di violenza identificati dagli infermieri sono: problemi di salute mentale (62.3%); uso di sostanze illecite (60.1%); aspettative non realistiche dell’assistito o dell’accompagnatore rispetto al sistema sanitario (57.9%), mentre i comportamenti dell’assistito o dell’accompagnatore che possono essere considerati segnali predittivi di imminente episodio di violenza sono il tono della voce (72.8%), lo stato di agitazione (70.9%), il comportamento minaccioso (66.7%), la postura (42.3%), il fissare con lo sguardo (32.7%), il camminare avanti e indietro (30.2%).

Dal punto di vista del personale invece, le caratteristiche che maggiormente possono contribuire a determinare gli episodi di violenza da parte dell’assistito e/o accompagnatore sono nel 54.7% dei casi una “comunicazione inadeguata con i pazienti (es. durante i tempi di attesa)”; nel 53.8% un “inadeguato numero di pazienti assistiti per singolo infermiere (Staffing)”; nel 34% dei casi “assenza di competenze per la gestione degli episodi di violenza da parte dei pazienti”.

E le azioni più efficaci per evitare conseguenze sono, secondo gli infermieri, per il 59.8% “riunioni formali con altri componenti del team assistenziale”; per il 53.1% “servizi di supporto per i dipendenti” e per il 40.9% “riunione informale con altri componenti del team assistenziale”.

E ancora una volta dall’indagine è emerso come la formazione specifica sia considerata una misura di prevenzione o riduzione del rischio di episodi di violenza sul luogo di lavoro.

Il 55.3% di chi ha dichiarato la presenza degli eventi formativi sul proprio luogo di lavoro per ridurre le aggressioni afferma di averlo completato.

Il 70% sostiene che partecipare agli eventi formativi è efficace per ridurre le aggressioni sul luogo di lavoro. Il 31.7% dice di aver completato un programma/corso di formazione per ridurre le aggressioni non avvenuto sul proprio luogo di lavoro.

Ma il 67.4%, invece, riferisce di non aver mai completato un programma/corso di formazione per ridurre le aggressioni.

Infine, La maggior parte degli infermieri (54%) riferisce che le procedure aziendali e/o dell’organizzazione sulla prevenzione e gestione dell’episodio di violenza, sono efficaci solo in parte, mentre il 30%, invece, che non sono efficaci.

"Lo studio ha dimostrato che gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione fisica o verbale; tuttavia per varie ragioni non riescono a intercettare e prevenire questi episodi”, spiega Annamaria Bagnasco, docente all’Università di Genova e coordinatrice della ricerca..

“Una delle concause dimostrate dallo studio – aggiunge - è la comunicazione inadeguata che avviene tra il personale e l’assistito e/o l’accompagnatore; tuttavia i processi comunicativi sono ampiamente influenzati dall’ambiente di lavoro, dallo staffing e dal benessere dei professionisti.

In questo momento lo studio sta fornendo ulteriori dati, su cui stiamo lavorando, per mettere in correlazione lo staffing, il benessere degli operatori e il benessere dei professionisti con gli episodi di aggressione, al fine di poter ipotizzare i fattori predittivi di questi eventi".

“Con lo studio CEASE-IT – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri – si descrivono le caratteristiche degli episodi di violenza e si identificano i fattori predittivi e le cause. I correttivi di cui c’è bisogno derivano da qui. E su queste basi sarà sicuramente più immediato il lavoro dell’Osservatorio di tutte le professioni che il ministero della Salute coordina, anche per organizzare la formazione che sicuramente in questo senso deve partire dalle scuole dell’obbligo, per tutti, e non certo solo dai luoghi di lavoro. Come dimostra lo studio ci sono innumerevoli situazioni che aumentano la percezione di pericolo, alla cui base c’è sicuramente la carenza di personale che proprio dallo studio emerge in modo chiaro: gli standard dicono che la qualità dell’assistenza infermieristica è al massimo livello se un infermiere assiste in media sei pazienti, ma la media indicata da CEASE-IT è di 12 e questo non consente di manifestare al massimo livello quello che abbiamo anche codificato nel nostro Codice deontologico e cioè che ‘il tempo di relazione è tempo di cura’. E direi in questo caso, come dimostra lo studio, anche di prevenzione e gestione della violenza sugli operatori”.





25 maggio 2022

dante - 20/10/2022 09:21

Infermieri: aggrediti 130mila l’anno. Le cause, le azioni e i costi (fino a 34 milioni)
16/06/2022

Le aggressioni (fisiche e/o verbali) sul posto di lavoro colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri – la categoria professionale più numerosa in assoluto del Servizio sanitario nazionale e della Sanità in generale -, il 33%, circa 130mila casi, con un ‘sommerso’ non denunciato all’INAIL di circa 125mila casi l’anno. Il 75% delle aggressioni riguarda donne.

Chi non ha segnalato l’episodio, lo ha fatto perché, nel 67% dei casi ha ritenuto che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio di violenza, nel 20% convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte dell’organizzazione in cui lavora, il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica attesa/accettata del lavoro e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire efficacemente questi episodi, senza doverli riferire.

Le conseguenze materiali per i professionisti delle aggressioni fisiche vanno nel 32% dei casi da escoriazioni e abrasioni a fratture e lesioni dei nervi periferici, fino anche – seppure in pochi casi – all’invalidità

La principale conseguenza psicologica è il burnout che colpisce il 10,8% degli infermieri che hanno subito violenza: attualmente quelli in burn out per questa e altre cause (stress da lavoro) sono il 33 per cento.

Anche gli assistiti corrono rischi. La violenza è nella maggior parte dei casi legata alla carenza di personale e alle sue conseguenze sui servizi: un’assistenza efficiente (con la riduzione del rischio di mortalità fino al 30%) si ha con un rapporto infermiere/paziente 1 a 6; allo stato attuale il rapporto medio nazionale è 1 a 12.

I danni però sono anche economici per il sistema. Secondo lo studio CEASE-IT promosso dalla Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, svolto da otto università italiane, capofila l’Università di Genova, sono anche economici. Il 32% degli infermieri riferisce di aver ricevuto violenza, con una media annuale di 15 episodi per singolo infermiere. In tutto, il 4.3% riferisce assenza dal lavoro a causa di violenza subita e questo, se l’assenza è di almeno tre giorni vale circa 600 euro a caso che moltiplicati per il numero degli infermieri coinvolti in un anno sale a oltre 11 milioni di euro, considerando la prevalenza dell’evento sulla popolazione infermieristica italiana.

Ma se l’assenza raggiunge i 7 giorni la stima di CEASE-IT triplica il costo per singolo evento (1.800 euro) e si raggiungono fino a oltre 34 milioni di euro/anno di costi totali a carico a carico del sistema e della società per la violenza sugli infermieri.

I dati sono stati presentati da Barbara Mangiacavalli, presidente FNOPI e Annamaria Bagnasco, ordinario di Scienze infermieristiche all’Università di Genova e coordinatrice della ricerca, al seminario “#rispettachitiaiuta – La sicurezza degli operatori sanitari”, organizzato al Senato su iniziativa del senatore Gaspare Marinello e al quale sono intervenuti numerosi onorevoli e senatori e i rappresentanti di tutte le professioni sanitarie.

“Lo studio ha dimostrato che gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione fisica o verbale; tuttavia, per varie ragioni non riescono a intercettare e prevenire questi episodi”, spiega Annamaria Bagnasco. “Una delle concause dimostrate dallo studio – aggiunge – è la comunicazione inadeguata che avviene tra il personale e l’assistito e/o l’accompagnatore; tuttavia, i processi comunicativi sono ampiamente influenzati dall’ambiente di lavoro, dallo staffing (carenza) e dal benessere dei professionisti”.

Il rischio di aggressioni è maggiore aumentando il carico di lavoro assistendo un paziente in più durante l’ultimo turno lavorativo, aumenta del 4% la probabilità di sperimentare violenza. Riconoscere il comportamento agitato dell’assistito come fattore predittivo degli episodi di violenza aumenta del 66% la probabilità di subire violenza rispetto a coloro che non riconoscono questo comportamento come fattore predittivo.

Lavorare come infermiere nell’area dell’emergenza/urgenza aumenta di oltre due volte la probabilità di subire violenza rispetto a lavorare in area medica. Lavorare come infermiere nell’area della salute mentale aumenta di oltre quattro volte la probabilità di subire violenza rispetto ad altri contesti.

Tra i fattori che diminuiscono le aggressioni è risultata significativa l’età; infatti, all’aumentare dell’età degli infermieri diminuisce del 3% la probabilità di subire violenza.

Gli infermieri che riconoscono l’uso di sostanze illecite da parte degli assistiti come fattore predittivo di episodi di violenza hanno il 36% di probabilità in meno di subire violenza rispetto a coloro che non riconoscono questo fattore come predittivo.

La presenza di procedure chiare per la gestione degli episodi di violenza sul luogo di lavoro riduce la probabilità di subire violenza del 26% rispetto ai luoghi di lavoro sprovvisti di tali procedure.

“Per restituire dignità all’attività professionale e garantire la sicurezza degli infermieri durante l’orario lavorativo – spiega Barbara Mangiacavalli – è quanto mai urgente inserire questa professione tra le categorie usuranti, mentre ora è riconosciuta soltanto la classificazione tra i “lavori gravosi. Lo studio – aggiunge – descrive le caratteristiche degli episodi di violenza e individua i fattori predittivi e le cause. I correttivi di cui c’è bisogno derivano da qui”.

I casi non denunciati (e quindi non risarciti dall’INAIL) sono circa il 95% di quelli effettivi e quindi il trend esula dalle attuali forme di risarcimento del danno.

lino - 20/10/2022 09:21

Escalation di aggressioni e minacce ai sanitari

Dalla Liguria alla Campania, dalla Toscana alla Sicilia, proseguono le aggressioni ai danni di infermieri, Oss e medici, soprattutto nei Pronto soccorso. A Brescia è in gravi condizioni il professionista sanitario che, a ferragosto, è stato preso a pugni da un paziente. Regione Lombardia corre ai ripari: Per scongiurare il ripetersi di tali episodi useremo anche servizi di vigilanza e videocamere di sorveglianza.

Servizi di vigilanza e videosorveglianza a tutela dei sanitari

È stato ricoverato d’urgenza presso l’ospedale Civile di Brescia, e dovrà essere operato in queste ore, l’infermiere 40enne che nella serata di ferragosto è stato aggredito all’interno del Pronto soccorso di Castiglione delle Stiviere (Mantova): il professionista sanitario è stato preso a pugni da un paziente. Giunto all’ospedale San Pellegrino in ambulanza, l’uomo stava per essere sottoposto ad elettrocardiogramma, quando all’improvviso si è scagliato contro l’infermiere che lo stava curando, colpendolo con almeno due pugni al volto. La vittima è franata a terra, priva di senso: il suo aggressore – che ha detto di non ricordare nulla sull’accaduto – è stato prima immobilizzato e quindi denunciato con l’accusa di lesioni gravi e violenza.

Solo alcuni giorni fa Regione Lombardia, in conseguenza delle numerose aggressioni negli ospedali nei confronti dei sanitari, si era detta pronta ad attivare servizi di guardia giurata e videosorveglianza a tutela del personale all’interno delle strutture ospedaliere e ambulatoriali, soprattutto nei Pronto Soccorso degli ospedali. Negli ultimi anni il numero delle aggressioni ai lavoratori è aumentato – le parole della vicepresidente e assessore al Welfare, Letizia Moratti (che in giugno si era espressa, sollevando non poche polemiche, sul ruolo degli infermieri da impiegare anche in tema di cure primarie, offrendo supporto e supplenza per affrontare la carenza di medici di medicina generale) –, se il caso lo richiederà attiveremo al più presto specifici servizi a tutela di chi quotidianamente con grande sacrificio e professionalità si occupa della salute dei cittadini.

Ma il tema delle violenze sui sanitari riguarda tutto il Paese. In Toscana, dopo alcuni episodi avvenuti anche al carcere “Le Sughere” di Livorno, il Nursind ha chiesto maggiore sicurezza per le operatrici sanitarie (mentre a Firenze, presso la casa circondariale di Solliciano, un’infermiera è stata palpeggiata nelle parti intime da un detenuto). E ancora, dopo i recenti episodi di violenza ai danni del personale infermieristico negli ospedali di Lanciano (anche nel carcere), il Nursing Up rivendica i diritti di tutela della categoria, e tuona: Un’intera professione che funge da capro espiatorio per una sanità che non funziona.

Episodi deprecabili ai danni di infermieri, Oss e medici si sono registrati – e si continua a farlo – anche in Campania, (a Napoli, nel 2021si sono registrate oltre 60 aggressioni a sanitari), Emilia Romagna, Liguria e Sicilia (dove pochi giorni fa un infermiere in servizio nel Pronto soccorso dell’ospedale Giovanni Paolo II di Ragusa è stato aggredito dal parente di un paziente), ma si potrebbe andare avanti all’infinito.

Da parte sua, la Fnopi ricorda che le aggressioni (fisiche e/o verbali) sul posto di lavoro colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri – la categoria professionale più numerosa del Servizio sanitario nazionale e della sanità in generale –, il 33%, circa 130mila casi, con un sommerso non denunciato all’Inail pari a circa 125mila casi l’anno. Il 75% delle aggressioni riguarda lavoratrici.

xa - 20/10/2022 09:20

Ma figuriamoci!!! Gli infermieri che lasciano la professione per via delle aggressioni saranno meno di dieci l'anno in tutta Italia. Non diciamo cose a vanvera. Quanto al fatto che ci sono poche persone giovani che scelgono la carriera infermieristica, questo dipende dalla struttura attuale della società e non da altri fattori.

Anonimo - 20/10/2022 01:27

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