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  • 13/10/2025 21:02

Psichiatria e migranti: la lunga sosta nei reparti italiani

Negli ultimi anni, in molti reparti psichiatrici italiani si è fatto strada un fenomeno silenzioso ma costante: la presenza crescente di pazienti stranieri, spesso migranti, trattenuti per periodi lunghi dopo episodi di violenza o crisi psicotiche. Non si tratta solo di un dato clinico, ma di un intreccio complesso fra salute mentale, burocrazia e vuoti istituzionali. Molti di questi pazienti arrivano in reparto in condizioni di forte scompenso: allucinazioni, disorganizzazione, aggressività. Ma altrettanto spesso la componente psichiatrica si mescola con la marginalità estrema — vite passate fra strada, precarietà, assenza di documenti, abuso di sostanze. Una volta stabilizzati, non c’è un “dopo” chiaro. Le strutture residenziali raramente li accettano: mancano garanzie legali, referenti, permessi. I dormitori non possono gestire patologie gravi. E il rimpatrio, per chi non ha identità certa o vive in un limbo amministrativo, richiede mesi di passaggi burocratici. Così, il reparto diventa una sosta obbligata. Non più luogo di cura acuta, ma una forma di detenzione sanitaria. Si resta lì perché non c’è dove andare. Gli operatori psichiatrici lo sanno bene: gestiscono casi che, da un punto di vista clinico, sarebbero già dimissibili, ma da un punto di vista sociale sono “irrisolvibili”. Il risultato è duplice. Da un lato, i reparti si saturano, con letti occupati da pazienti stabili ma “non collocabili”; dall’altro, i professionisti si trovano a svolgere un ruolo improprio, di contenimento più che di cura. La pressione quotidiana cresce, le dimissioni si rallentano, e il rischio di burn-out fra gli operatori aumenta. Dietro ogni caso c’è la fotografia di un sistema che non comunica: sanità, servizi sociali, prefetture, ambasciate, enti locali. Ognuno con competenze parziali, nessuno con la responsabilità piena. E mentre il tempo passa, il reparto psichiatrico diventa — suo malgrado — il luogo dove finisce ciò che il sistema non sa dove mettere. Serve una rete che pensi al “dopo”, non solo all’emergenza. Altrimenti continueremo a confondere la cura con la custodia, e la psichiatria con un parcheggio sociale travestito da terapia. A Cura del Comitato Sanità e Sicurezza -Tuscania

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